Il primo piffero racconta

Il 25 ottobre 2023, Simone Boglia, primo piffero del gruppo Pifferi e Tamburi di Ivrea, ha partecipato assieme al mastro liutaio Massimo Enrico ad una trasmissione della Radio Svizzera Italiana.
Nell’intervista, vi è una approfondita descrizione di ciò che è il gruppo dei pifferi e tamburi, dalle origini ai giorni nostri e di come sia parte integrante dello storico carnevale di Ivrea.  Il tutto corredato da un excursus sulla tecnica utilizzata nella costruzione di questo magico strumento che è il piffero canavesano.

Di seguito, il testo integrale della intervista e i collegamenti ai podcast per l’ascolto.

Versione integrale dell’intervista di Christian Gilardi (Radiotelevisione della Svizzera Italiana) al Primo Piffero Simone Boglia. 

Lugano, 25 ottobre 2023.

All’interno delle rappresentazioni storiche di alcuni Carnevali, i pifferi e i tamburi sono un elemento insostituibile e unificante. Questi complessi sono presenti in Italia,  in Piemonte nel Canavese e in Ossola, con riferimenti napoleonici, sabaudi o comunque ottocenteschi nei costumi.

L’origine dei pifferi va ricondotta storicamente alla diffusione in tutta Europa dei complessi svizzeri di flauti e tamburi, che grazie ai successi militari delle truppe mercenarie valligiane, si imposero, a partire dal XV secolo, come strumenti particolarmente efficaci per potenza di suono  unita alla facilità di trasporto e di uso.

Ben ritrovati da Christian Gilardi, in questa puntata di Grand Bazaar, parleremo e ascolteremo i Pifferi e i Tamburi del Carnevale di Ivrea, probabilmente uno dei più importanti Carnevali storici in Italia. Il Carnevale di Ivrea è uno straordinario collage storico dove vivono ancora oggi, gomito a gomito, personaggi e avvenimenti di epoche diverse, condotti però da un filo logico: l’affermazione della libertà contro le tirannie di ogni tempo. La colonna sonora del Carnevale di Ivrea son appunto i Pifferi e i Tamburi, che aprono il corteo storico attraverso le loro marce e costituiscono un forte richiamo per ogni abitante di Ivrea il cui cuore viene come dire, scaldato, dalla sonorità di questo antico complesso.

Per parlarci di questa tradizione del Carnevale e del Gruppo dei Pifferi e Tamburi del Carnevale storico di Ivrea abbiamo invitato qui a Grand Bazaar Simone Boglia, che ricopre il ruolo di Primo Piffero. 

  • Simone, partiamo proprio dal Carnevale di Ivrea, che è uno dei più antichi ed anche, paradossalmente, più serio del mondo: infatti racconta una storia vera, vecchia di quasi mille anni, che ha per protagonisti castellani ribaldi e popolane liberatrici.

In effetti Il Carnevale di Ivrea ha origini antiche a partire dal sedicesimo secolo, quando veniva chiamato “la festa dello scarlo”. Questa era un’usanza ereditata da tempi ben più lontani, quando le popolazioni di origine celtica, in corrispondenza della fine dell’inverno e del ritorno della primavera, festeggiavano il rito della natura, scavando delle buche nel terreno dove veniva piantato appunto questo “scarlo”, un lungo palo rivestito di rami secchi che veniva incendiato per compiere questo gesto propiziatorio a favorire la fertilità per il nuovo anno che stava iniziando.

A Ivrea, a partire dal 1600 queste feste venivano organizzate dalle badie, che erano gruppi giovanili legati territorialmente ad una parrocchia o ad un quartiere. All’interno di queste badie veniva eletto un responsabile che era l’Abbà. L’Abbà era il capo della festa, e quindi ogni rione aveva la sua bandiera, il suo Abbà, i suoi suonatori di piffero e tamburo e tutto il seguito. Non di rado questi cortei festosi, nell’atto di incrociarsi fra di loro, forse a causa di un eccessivo campanilismo, generavano battibecchi più o meno tumultuosi, e fu per questo che a inizio ottocento, durante la dominazione napoleonica, vi fu un editto che decretava l’unificazione di tutti i carnevali rionali in un’unica festa cittadina. Ed ecco quindi che anche i vari suonatori di piffero e di tamburo vennero riuniti in un unico gruppo che è quello tutt’ora vivente. 

Col passare del tempo si sono aggiunti elementi della festa che affondano le radici nel medioevo, un misto fra verità e fantasie che servirono ad arricchire lo storico cerimoniale, quindi riferimenti a tiranni e rivolte popolari di varie epoche, a partire dal XII e XIII secolo. Ecco allora che il popolo affamato si ribella a questo marchese del Monferrato e la fantasia popolare inventa il personaggio di Violetta, la figlia di un mugnaio che opponendosi allo “ius primae noctis”, norma che per altro non è mai esistita veramente, nottetempo si presenta dinnanzi al tiranno e con una spada gli mozza la testa e da il via a tutta la rivolta del popolo. La vezzosa Mugnaia è la regina del Carnevale di Ivrea, la dea che dal suo cocchio dorato difende ed esalta i valori della libertà, ma anche del patriottismo. Infatti non a caso il personaggio viene inserito nel cerimoniale in pieno periodo risorgimentale   (1858) e veste i colori della bandiera italiana: il verde, il bianco e il rosso. 

  • Lo abbiamo detto ad inizio trasmissione: la colonna sonora del Carnevale di Ivrea sono le pifferate, riuniti in un gruppo che trae le sue origini dalle bande militari che nel ‘600 e ‘700 accompagnavano gli eserciti, ma che ora sono inseriti all’interno della drammaturgia del Carnevale.

A Ivrea e in Canavese l’utilizzo del piffero, inteso come piccolo flauto traverso, e del tamburo, parte dal 1600 e i suonatori di tali strumenti potevano appartenere sia agli ambienti militari, legati agli eserciti di fanteria, sia come musicisti ambulanti che giravano il territorio guadagnandosi da vivere in quella maniera. Le origini dei nostri suonatori sorgono ben prima delle riforme napoleoniche, e pur non avendo documentazioni scritte, è lecito pensare che i musicisti appartenessero più facilmente alla categoria degli ambulanti e solo in un secondo periodo, dal 1820 circa, vi fu l’integrazione dei pifferai con origini militari. Questo fu dovuto principalmente al fatto che a partire da quegli anni il piffero, come strumento, venne sostituito dalla tromba, mentre invece il tamburo fu utilizzato per molto tempo ancora. Diciamo pure che la musica militare, proveniente da diverse epoche, e probabilmente da diversi paesi europei, ha fortemente influenzato la formazione del repertorio della banda, pur non tralasciando del tutto contesti musicali legati a tradizioni popolari di danze tipiche locali.

  • Per tradizione i Pifferi e i Tamburi fanno la loro comparsa il mattino del 6 gennaio, giorno dell’Epifania, e percorrendo le strade cittadine annunciano con sonate festose che il Carnevale è tornato: quali sono poi gli altri momenti in cui il Gruppo dei Pifferi e Tamburi accompagna il rituale?

I Pifferi, come vengono più semplicemente chiamati ad Ivrea, sono praticamente presenti a quasi tutte le cerimonie previste dal rituale del Carnevale. Iniziano con l’Epifania e concludono la festa con le note della marcia funebre, la sera del martedì grasso, dopo l’abbruciamento degli scarli. In tutti gli altri momenti accompagnano in musica il Generale col suo Stato Maggiore, che fin da due domeniche prima di quella di Carnevale, si recano a visitare le fagiolate rionali, dove si distribuiscono al pubblico i prelibati fagioli grassi con cotiche e salamini, piatto tipico della tradizione canavesana e in questo caso della tradizione carnevalesca. Nel pomeriggio si presentano gli Abbà, affacciandoli dai balconi delle loro rispettive parrocchie, e qui i Pifferi suonano le Diane, ognuna differente per ogni Abbà. Al giovedì grasso vi è l’incontro con gli allievi delle scuole e poi al pomeriggio la marcia con la visita al Vescovo. Sabato sera, uno dei momenti più alti del Carnevale, con l’uscita della Mugnaia, e poi i tre giorni veri e propri della festa: la domenica, il lunedì e il martedì grasso, con la marcia e la battaglia delle arance. Tutto si conclude con gli abbruciamenti degli scarli il martedì sera.

  • Quante sono le pifferate che la tradizione ci ha tramandato e come sono suddivise? 

Il repertorio della banda dei Pifferi e Tamburi di Ivrea è uno dei più ricchi e meglio conservati a livello di patrimonio di etnomusicologia del Piemonte. Esso è composto da 34 pifferate che grossomodo si suddividono in due gruppi principali: le marce che sono 16, e le monferrine che sono 11. Tutte queste melodie si eseguono in movimento, vale a dire camminando durante il corteo storico. Vi sono poi 7 brani che si eseguono a piè fermo, ossia in momenti di pausa della sfilata, oppure in particolari cerimonie come ad esempio le zappate, oppure gli abbruciamenti degli scarli. Ovviamente tutto questo repertorio non è nato contemporaneamente, ma è il frutto di ispirazioni e influenze musicali sia militari che popolari a partire dal diciassettesimo secolo in avanti, passando attraverso il periodo napoleonico e giungendo fino al Risorgimento. Un repertorio quindi molto stratificato, costituitosi in quasi tre secoli di vita, che di conseguenza ha necessitato di grande impegno, da parte dei musici di ogni periodo, per essere correttamente e completamente conservato fino ai giorni nostri.

  • La tradizione del pifferaio viene spesso tramandata di padre in figlio: chi sono i musicisti che fanno parte del Gruppo?

Possiamo affermare con certezza, che se ancora oggigiorno il repertorio musicale del Carnevale di Ivrea rimane conservato integralmente e in modo meticoloso, questo è grazie alle famiglie di pifferai e tamburini che di generazione in generazione si sono tramandate non solo le musiche, rigorosamente ad orecchio, ma anche tutta una serie di conoscenze, gestualità e competenze tecniche costruttive, che messe tutte insieme andavano a creare una sorta di vera e propria professionalità nel mondo del Carnevale, tant’è vero che ogni suonatore veniva stipendiato in base al suo ruolo e alla sua competenza. Oggi naturalmente questa sorta di remunerazione personale non esiste più, ma è stata trasformata sotto l’aspetto di contributi da parte degli enti locali, per coprire almeno parzialmente i costi di gestione del Gruppo. Per motivi di mancanza di documentazioni scritte, ci è impossibile conoscere i nomi dei nostri antenati pifferai e tamburini che intrapresero il cammino che ha portato la banda fino ai giorni nostri, però grazie alle memorie viventi, sappiamo che a partire dalla seconda metà dell’ottocento vi furono due vere e proprie dinastie, una delle quali tuttora vivente, che meritano di essere menzionate: per i pifferai la famiglia Fornero Monia, le sue tre generazioni coprirono un arco di tempo di quasi 150 anni e vi fu addirittura un periodo all’inizio del 900 in cui la totalità dei suonatori di piffero della banda apparteneva a quella famiglia, tant’è vero che in quel tempo il Gruppo veniva chiamato “i pifer dla Munia”, riferendosi appunto al loro cognome. Per i tamburini la famiglia Gili, tuttora presente, dalla fine dell’Ottocento a oggi è arrivata alla sesta generazione. A loro va sicuramente riconosciuto il fatto di aver contribuito in modo determinante alla conservazione delle tecniche, sia musicali che costruttive, del tamburo rullante militare. Inoltre vanno ricordati i componenti delle famiglie Revel Chion, gli Zoppo, i Billia/Stracuzzi, gli Stevanella e ancora tanti altri. Da circa 50 anni vi sono poi i musicisti che sono entrati nel Gruppo pur non appartenendo ad una vera e propria discendenza, ma più semplicemente avendo frequentato i corsi di apprendimento e superando le selezioni per l’ingresso. Attualmente l’organico è composto da 45 elementi tra pifferai, tamburini, battitori e portatori di grancassa. Un numero considerevole, se si pensa che all’inizio del secolo scorso alcuni documenti fotografici mostrano un gruppo di appena 5 pifferai, 5 tamburini e una grancassa.

  • Cosa ci puoi dire a proposito delle vostre divise, hanno un’origine specifica?

Innanzitutto dobbiamo dire che il modo di vestire dei musici è mutato a seconda delle epoche. Quasi sicuramente nel periodo delle badie e quindi pre-napoleonico i suonatori non avevano una divisa, ma erano semplicemente vestiti con i loro abiti di tutti i giorni, erano in numero esiguo e quello che li contraddistingueva erano i loro stessi strumenti.  Poi dall’inizio dell’ottocento con la creazione del personaggio del Generale e del suo Stato Maggiore, ecco che nasce una necessità di vestire questo gruppo, che per altro stava crescendo in termini numerici, con degli abiti che fossero affini a quelli del corteo che si stava creando. Tuttavia la cosa non deve essere stata così immediata, anche perché probabilmente le fonti ispiratrici non erano così ben chiare e definite. A metà ottocento i Pifferi e Tamburi vengono spesso raffigurati nelle stampe dell’epoca con dei grossi camicioni, delle specie di tuniche che arrivavano fin quasi al ginocchio con alti colletti, fermate alla vita con dei cinturoni e il copricapo rosso, il berretto frigio che ricorda le rivoluzioni. Questo modo di vestire, che proseguirà fino a fine ottocento, identifica i suonatori più come professionisti al servizio del Carnevale che non come eredi di arcaiche formazioni militari. Solo a fine ottocento si cominciò a pensare di cambiare l’abbigliamento dei musici, che nei primi documenti fotografici, che risalgono al 1889, appaiono con lunghe giacche e copricapi a forma di feluca, divisa probabilmente ideata per partecipare all’Esposizione Universale di Torino. Di seguito fu addirittura creato un “comitato per il riordinamento dei Pifferi e Tamburini” che in occasione del primo centenario del Carnevale (1908) progettò nuove divise, con giacche in stile settecentesco e tanto di copricapo a forma di tricorno, ma che non ebbe molta fortuna e venne quasi subito abbandonata. Va comunque sottolineato che in qualsivoglia periodo non furono mai i Pifferi a stabilire il loro abbigliamento, ma furono gli organizzatori del momento a decidere come dovevano essere vestiti. Durante la prima guerra mondiale e negli anni seguenti vi furono periodi di grande povertà, e sovente i suonatori dovettero sfilare in borghese. La memoria storica che ci è stata trasmessa ci racconta che negli 30 del novecento fu imposto ai suonatori di indossare delle ghette che erano scomodissime, e di conseguenza odiatissime. Dalla fine degli anni 40 in poi, le divise assunsero un aspetto sempre più tendente al militare, con un tipo di vestiario sempre molto comodo e pratico da indossare, al fine di agevolare un lavoro che si iniziava dalle prime ore del mattino e proseguiva fino a tarda notte. Si occuparono della fattura delle divise anche alcune sartorie teatrali, che a seconda dei periodi produssero dei modelli con dettagli leggermente differenti fra loro, ma sempre composti da pantaloni con una banda longitudinale, una giacca a doppio petto con le code nella parte posteriore e l’immancabile berretto frigio  che ancora oggi si porta. I colori adottati per questi abbigliamenti furono il rosso e il blu, per terminare con il verde e il rosso, che dagli anni 70 del novecento sono quelli tuttora esistenti nella divisa attuale.

  • Simone Boglia, tu ricopri il ruolo di Primo Piffero. Ci può spiegare il suo compito all’interno del Gruppo e anche quello di altri suoi colleghi, mi riferisco soprattutto al Tamburo Maggiore?

Il Primo Piffero è il direttore del Gruppo. A lui spetta il compito di scegliere le pifferate da eseguire in base ai luoghi o alle cerimonie, e stabilirne la durata. Deve dare l’attacco del brano in modo forte e chiaro, affinché possa essere raccolto dal Primo Tamburo e di seguito da tutti gli altri musici, fin nelle ultime file. Da un punto di vista tecnico e costruttivo deve conoscere bene il piffero, sapendo intervenire sugli strumenti dei suonatori, nel caso di problematiche che vanno al di là della manutenzione ordinaria. Inoltre deve selezionare insieme al Primo Tamburo gli allievi che, finito il corso di apprendimento, potranno entrare a far parte della banda. Il Primo Tamburo invece è quel tamburino che, per bravura e capacità (un tempo anche per anzianità) deve dare la cadenza alle marce mantenendo il giusto ritmo. In certi momenti si esibisce anche come solista, creando una sorta di botta e risposta con il Secondo Tamburo e il resto dei musicisti. Anche nel suo caso, come già per il Primo Piffero, deve avere una perfetta conoscenza del suo strumento e del suo corretto assemblaggio. Entrambe queste due figure sono fondamentali per il funzionamento ottimale del Gruppo.

  • Come vengono tramandate le pifferate: sono scritte? O è una trasmissione orale?

Le pifferate del Carnevale di Ivrea sono sempre state trasmesse con il metodo dell’oralità, indipendentemente dalla loro epoca di origine. Questo avveniva nelle famiglie dei suonatori sia di piffero che di tamburo, che sovente erano di origine contadina o comunque di umile estrazione. Tutta gente che non conosceva la musica, e quindi quello era l’unico sistema per tramandare alle generazioni successive il prezioso repertorio. Tuttavia all’inizio del novecento il maestro Angelo Burbatti, musicista, compositore e organista della Cattedrale, si cimentò nella trascrizione su pentagramma di una parte di pifferate (circa una ventina), richiesta che era pervenuta da quel ceto appartenente alla borghesia cittadina che in quel periodo spingeva per attuare un processo di storicizzazione dell’intera festa. Ovviamente uno storico Carnevale necessitava di storiche pifferate, e da lì ecco l’esigenza di tali trascrizioni. In realtà i Pifferi continuarono a lavorare con il loro metodo arcaico che mai abbandonarono, anche perché le famose trascrizioni del Burbatti erano un po’ differenti dai brani originali, infatti il musicista aveva creato una sorta di arrangiamento (forse per pianoforte) ricco di abbellimenti che non comparivano nelle versioni che in realtà suonava la banda. In tempi più recenti, all’inizio del 2000, grazie ad un’iniziativa condotta dall’indimenticabile professor Febo Guizzi, docente di etnomusicologia dell’Università di Torino, e dei suoi allievi, si svolse una massiccia operazione di riprese audio, catalogazioni e trascrizioni di tutto il repertorio dei Pifferi che si concluse con la stampa del libro “musiche e suoni del Carnevale di Ivrea” che oltre all’aspetto musicale analizza anche tutto il lato storico e tradizionale del Gruppo. Attualmente diversi musicisti della banda sono in grado di leggere la musica, tuttavia noi preferiamo mantenere in vita il vecchio metodo di apprendimento ad orecchio, per non andare contro quella che è sempre stata la nostra tradizione.

  • Queste musiche sono sempre rimaste legate al territorio oppure sono state utilizzate anche fuori da una tradizione carnevalesca?

Nel panorama discografico del folk-revival piemontese furono diversi i gruppi che a partire dalla fine degli anni 70 attinsero al repertorio delle pifferate del Carnevale d’Ivrea. I primi ad inserire una traccia nel loro disco furono gli Astrolabio nel 1978 con la pifferata “Palazzo di Città”, che tra l’altro all’epoca era conosciutissima, in quanto era la sigla del Gazzettino del Piemonte, ovvero l’odierno notiziario regionale, che veniva trasmesso in radio dalla Rai alle 12:30 quotidianamente. Altri gruppi che di seguito pubblicarono e inserirono pifferarate nei loro concerti furono la Ciapa Rusa, nel cd Retanavota (suite di arie del Carnevale di Ivrea, 1990). Ombra Gaia e Laura Conti in “A l’arbat del sol” (Titau/tre solda/corenta ed Culoto, 2001). E poi ancora i Marlipò, le Vija, l’Ariondassa, tanto per citarne alcuni. Grazie a Maurizio Martinotti e alla sua collaborazione con il gruppo valenciano “Urbalia Rurana”, le pifferate di Ivrea superarono i confini nazionali e vi fu pure un allestimento teatrale francese del 1994 dal titolo “Musicalpina”, ideato da Jean Marc Jacquier, che includeva nel suo repertorio un’aria suonata dai Pifferi e Tamburi. Tutto questo ci fa capire come le musiche del Carnevale di Ivrea non abbiano solo una vita propria, ma siano state, o saranno in futuro, utilizzate come fonte di ispirazione da parte di gruppi o di musicisti che, grazie alla loro sensibilità e capacità, ne hanno fatto e ne faranno buon uso.

  • Torniamo ancora un momento al rituale del Carnevale: esso ruota tutto intorno alla Mugnaia, al generale e agli aranceri. La festa si consuma in tre giorni: dal sabato sera, quando la mugnaia appare sul davanzale del Municipio, al martedì nel momento in cui le fiamme avvolgono l’ultimo scarlo, il palo con in cima una piccola bandiera. C’è però un momento avvincente ed emozionante: la battaglia delle arance.

I protagonisti assoluti del cerimoniale storico del Carnevale di Ivrea sono quattro: la Mugnaia, di cui abbiamo già fatto cenno in precedenza, è il personaggio più amato e osannato dal popolo gaudente. Essa viene presentata al sabato sera dal balcone del civico palazzo e per tre giorni sfila per la città lanciando agli spettatori dal suo cocchio dorato mazzetti di mimose e caramelle. Il Generale, è la figura che da inizio ottocento sostituirà gli Abbà diventando l’unico vero capo della festa, contornato dal suo stato maggiore composto da aiutanti di campo, ufficiali e vivandiere. A loro sta il compito ormai puramente simbolico di controllare a livello di ordine pubblico il corretto svolgimento del Carnevale. Il Sostituto del Gran Cancelliere, che è un notaio incaricato di verbalizzare su un grosso libro tutti gli eventi e le cerimonie della festa. Il Podestà invece è un personaggio che rievoca il periodo medioevale ed è protagonista di una cerimonia che ogni anno rammenta la cacciata del tiranno con la conquista della libertà da parte del popolo. 

Vi è poi il lato più folkloristico e di grande impatto visivo ed emotivo che è la battaglia delle arance, che si svolge la domenica, il lunedì ed il martedì grasso sulle piazze della città. Nata nell’ottocento come lancio gentile di questi frutti esotici da parte delle ragazze della borghesia di Ivrea, che dai loro balconi le facevano cadere sui ragazzi che passavano di sotto, forse per farsi notare, col passare del tempo questo gesto si trasformò quasi come fosse un gioco divertente fra chi raccoglieva le arance da terra e le rilanciava a quelli che stavano sui balconi e viceversa, azione che divenne sempre più cruenta, almeno in apparenza. In questo modo nacquero le squadre di aranceri a piedi, che rappresentano il popolo in rivolta e gli aranceri sui carri, tirati da bellissimi ed elegantissimi cavalli, che impersonano i soldati del tiranno. Negli ultimi cinquant’anni la battaglia ha assunto delle proporzioni a dir poco impressionanti, qualche numero per rendere l’idea: vengono tirate 700 tonnellate di arance, ovviamente sono arance di quelle non destinate all’uso alimentare, quindi non vi sono degli sprechi importanti, 7000 arancieri a piedi, 54 carri da getto, 180 cavalli. Anche gli spettatori sono protagonisti al Carnevale di Ivrea, in quanto devono indossare il rosso berretto frigio, simbolo della rivolta, per non essere colpiti dalle arance.

  • La banda dei Pifferi e Tamburi di Ivrea vive da più di due secoli, cosa significa oggi essere un componente di questo Gruppo?

Il Carnevale di Ivrea è una festa popolare unica al mondo, che ha vissuto importanti cambiamenti dalle sue origini ai giorni nostri, fatti che si sono resi indispensabili per poter portare la manifestazione ai livelli attuali. In questo quadro di perenne mutamento, la sola cosa che da sempre è rimasta invariata è la musica della banda dei Pifferi e Tamburi, che continua ad evocare sia l’organizzazione bellica di antico regime, sia un profondo tessuto tradizionale e festivo. Il lavoro di conservazione del repertorio che è stato fatto dai nostri predecessori, assume un’importanza sempre più pesante col passare del tempo, ed evidenzia la profonda valenza sociale di questo Gruppo, nonché la sua indiscussa professionalità come depositario della tradizione. Quindi è chiaro che questi musici, io per primo, debbano sentire la grande responsabilità, e anche la sensibilità per raccogliere questo repertorio e portarlo avanti nel tempo. Le musiche del Carnevale di Ivrea sono un dono, il singolo suonatore è solo di passaggio, e quando riceve questo dono deve impegnarsi a curarlo e conservarlo nella maniera più grande e più bella che sia possibile, al fine di poterlo restituire a quelli che verranno dopo di lui. Tutto questo, naturalmente va fatto con grande serietà. Un vecchio slogan pubblicitario di alcuni decenni fa diceva: “il Carnevale di Ivrea è una cosa seria! Non vi sono maschere sui volti dei personaggi”, ed in effetti è proprio così, sebbene non si debba mai dimenticare che si tratta pur sempre di una festa, e come in tutti gli altri carnevali non possono mancare i momenti di divertimento e spensieratezza. Mantenendo in vita queste musiche dei Pifferi e Tamburi, si raggiunge l’obiettivo di salvaguardare questo patrimonio musicale e popolare del Piemonte. Non vi sono altre che chiavi di lettura. Questa, a mio parere, deve essere l’unica vera filosofia di questo nobile Gruppo.